L'ANM è l'associazione cui aderisce il 96% circa
dei magistrati italiani. Tutela i valori costituzionali, l'indipendenza e l'autonomia della magistratura.

5 maggio 2014

Ipotesi di articolato per l’abrogazione del rito ex art. 1 legge 92/2012 e l’unificazione dei giudizi e della competenza sui licenziamenti

Testo elaborato da ANM e AGI (Associazione giuslavoristi italiani) e presentato al Ministero della giustizia il 5 maggio 2014

Articolo 1
Le norme di cui all’art. 1, commi da 48 a 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92, sono abrogate.


Articolo 2
Alla trattazione dei giudizi nei quali si controverte sulla validità, l’efficacia o la legittimità dei licenziamenti ai sensi dell’art. 18 legge 300/70 sono riservati specifici giorni nel calendario delle udienze del giudice, che deve trattarli e definirli con particolare speditezza.


Articolo 3
I dirigenti degli uffici giudiziari vigilano sull’osservanza della disposizione di cui all’art. 2.


Articolo 4
I giudizi già introdotti con ricorso depositato entro la data del ____ (data di entrata in vigore della legge – n.d.r.) sono trattati e definiti secondo le norme di cui all’art. 1, commi da 48 a 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92.


Articolo 5
Le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non siano proposte con ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c., sono introdotte, ricorrendone i presupposti, con i rispettivi riti speciali di cui agli artt. 38 d.lgs. 198/2006 e 28 d.lgs. n. 150/2011.
La proposizione dell’azione nell’una o nell’altra forma preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio col rito diverso.


Articolo 6
Le azioni relative al licenziamento incidente sul rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, anche nel caso in cui venga a cessare, col rapporto di lavoro, quello associativo, sono introdotte con ricorso ai sensi degli art. 409 e segg. c.p.c. e sono soggette alle disposizioni degli art. 2 e 3 della presente legge.


Una legge unica sui licenziamenti – Ragioni della proposta
La legge 92/2012, di proposta governativa, ha introdotto, come noto, un’ampia gamma di norme in materia economica, lavoristica e previdenziale.
Con l’art. 1, commi da 47 a 68, ha introdotto un nuovo rito processuale per le sole cause d’impugnazione dei licenziamenti, articolato, nel primo grado di giudizio, in due fasi (una cd. sommaria e la seconda di opposizione al provvedimento adottato nella prima) e seguito da un grado di reclamo in appello, oltre che dal giudizio di legittimità davanti alla Cassazione.


Queste le principali ragioni d’insoddisfazione – unanime  tra gli operatori del diritto – per la riforma processuale:



  1. Il nuovo rito incide sul processo del lavoro che, in molte sedi, funziona con efficacia e garantisce rapidità di decisioni.

  2. Lo scopo della celerità enunciato (art. 1, comma 1, lett. c, legge 92/2012) era già realizzato in molte sedi con strumenti analoghi (corsia preferenziale nell’agenda del giudice o della sezione); per raggiungerlo, basta una disciplina organizzativa, non occorre introdurre un rito (ultra)speciale.

  3. Il carattere speciale di questo nuovo rito comporta ora gravi problema di rapporti con le cause connesse da trattarsi col processo del lavoro: non è più consentita una trattazione unitaria, neppure quando – e può accadere – sia necessario procedere con uguale celerità nel giudizio che non abbia ad oggetto il licenziamento: con negative conseguenze sul piano della concentrazione del processo, dei suoi costi, dei diritti di (tutte) le parti.

  4. La doppia fase nel solo primo grado introduce un vaglio ripetitivo sul licenziamento, inutile e di fatto pregiudizievole alla celerità perseguita: si ottiene il risultato contrario rispetto all’obiettivo.

  5. Il carattere eventuale della seconda fase si risolve, quando la questione sia davvero controvertibile, in un passaggio ineliminabile (e spesso superfluo) per consentire alle parti di pervenire ai gradi d’impugnazione: si allungano i tempi, aumentano costi del giudizio e (moltiplicandosi gli adempimenti processuali) incertezze sul suo esito.

  6. La caratteristica vincente del processo del lavoro (ormai preso a modello da molti studiosi anche per il giudizio ordinario) si è sempre ravvisata nel meccanismo di decadenze e preclusioni immediate e nei poteri ufficiosi del giudice: il carattere sformalizzato della prima fase del primo grado, priva di decadenze, rende incompleti le difese e il materiale probatorio delle parti ed impedisce al giudice di pervenire, grazie al tentativo di conciliazione ed all’interrogatorio libero delle parti, a soluzioni subito decisive e utili per le parti.

  7. Nella disciplina del rito della legge 92/2012 la terminologia presenta elementi di scarsa precisione tecnica e lessicale, sicché sta generando, incertezze, contrasti e contenziosi interpretativi, tra gli altri, su: a) gli effetti delle azioni proposte erroneamente con uno o l’altro rito; b) i rapporti tra le due fasi del primo grado in ordine alla rispettiva natura ed agli ambiti istruttori; c) l’identificazione delle cause proponibili col nuovo rito; d) gli effetti della decisione adottata nel fase sommaria; e) i rapporti con le cause trattate con diverso rito;

  8. I contrasti che in tre anni di vigenza hanno già interessato le sezioni unite della Cassazione (sulla proponibilità dell’azione di accertamento da parte del datore di lavoro) e la Corte costituzionale (sull’identità del giudice nelle due fasi del primo grado) denotano l’impatto negativo del rito in termini d’incertezza interpretativa ed i riflessi ordinamentali potenzialmente gravi che le soluzioni adottate possono avere per gli equilibri di molti uffici.


Norme concepite per perseguire gli obiettivi, condivisibili, di celerità nelle decisioni e certezza del diritto, hanno generato, pertanto, i rallentamenti ed i contrasti irrisolvibili che tutti i commentatori avevano già prefigurato all’indomani dell’approvazione della legge 92/2012. 
Il testo che si propone proviene dal lavoro congiunto di magistrati e avvocati del lavoro, questi ultimi patrocinanti le posizioni tanto dei lavoratori quando degl’imprenditori, ed è stato condiviso dalle forze sociali. E’ dunque destinato ad incontrare il massimo consenso tra gli operatori del diritto. Esso racchiude in sei articoli tre interventi fondamentali:



  • l’unificazione della disciplina delle cause di licenziamento (artt. 1-4)

  • la chiarificazione dei modi per impugnare i licenziamenti discriminatori (art. 5)

  • la concentrazione delle azioni verso la cessazione del rapporto del socio lavoratore di cooperativa (art. 6)


Secondo i proponenti, il testo avrebbe i seguenti pregi:


a) si fonda poche norme chiare;


b) riconduce i processi dei licenziamenti all’unico rito del lavoro, conservando però (art. 2 del testo) gli strumenti acceleratori ordinamentali pensati dalla legge 92/2012, utili dunque a garantire a quei giudizi la corsia preferenziale voluta dal legislatore, anche negli uffici giudiziari in cui il rito ordinario del lavoro non offra tempi rapidi di definizione;


c) elimina tutti gli inconvenienti che si sono esposti.


d) elimina le incertezze applicative anche in altre controversie sui licenziamenti (discriminatori e dei soci lavoratori di cooperative), in cui la persistenza di ulteriori forme processuali e di norme non chiare generano soluzioni contrastate e incertezza perdurante.


e) si conforma all’idea di semplificazione, già perseguita dal d. lgs 150/2011, riducendo il numero dei riti processuali civili.


Il testo proposto si pone dunque in una linea di continuità con gli intenti del legislatore del 2012 e di coerenza con la riforma semplificatrice del 2011. Di più. Si considerino, inoltre, il carattere sperimentale della riforma che era enunciato nella stessa legge 92/2012 (art. 1, comma 2) ed il notevole precedente costituito dall’abrogazione del cd. “rito societario” (che era stato introdotto col d. lgs 5/2003).


Tutti questi argomenti favorevoli alle ragioni di magistrati ed avvocati hanno trovato oggi una definitiva conferma per opera dello stesso legislatore.
Infatti l’art. 11 d. lgs 23/2015, attuativo della legge delega 183/2014 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (primo decreto del cd. job’s act), afferma testualmente che ai licenziamenti intimati ai sensi di quel decreto “non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell’articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92”.


Se dunque le cause di chi è stato assunto col contratto a tutele crescenti e poi licenziato saranno trattate col rito del lavoro ordinario, non si vede più la ragione della sopravvivenza del rito speciale della legge 92/2012. Conservarlo significherebbe dare vita ad un doppio regime processuale anche in materia di licenziamenti, un regime irrazionale e foriero di complicazioni applicative ulteriori rispetto alle innumerevoli già esistenti.


Basti pensare al caso di due lavoratori licenziati contemporaneamente per la stessa violazione disciplinare, ma assunti in periodi diversi, oppure a licenziamenti collettivi che coinvolgano (come avverrà spesso) lavoratori assunti in momenti differenti: dovrebbe celebrarsi un processo diverso per ciascuno, con esiti potenzialmente diversi ed imprevedibili e con una evidente antieconomicità della sua gestione per i giudici, per i difensori, per le parti.


Quello dei costi processuali è oggi un fattore di ancora maggiore rilievo se si considera che è venuta meno la gratuità del processo del lavoro (come era stata concepita dalla legge 533/73) e che la modifica recente dell’art. 92 c.p.c. ha ristretto gli spazi entro cui è consentita la compensazione delle spese; perciò sono aumentati gli oneri del processo per chi – datore di lavoro o lavoratore – risulti soccombente nel giudizio, non potendosi tenere conto di eventuali ragioni che attenuino la sua concreta responsabilità.  


***


Le considerazioni svolte valgono anche per le due disposizioni (artt. 5 e 6) in tema di licenziamento discriminatorio e del socio di cooperativa.


Quanto al primo, la convivenza del rito del lavoro (o ex legge 92/2012) con quelli introdotti dal cosiddetto codice delle pari opportunità (d.lgs. 198/2006, art. 36 segg.) e dal giudizio per le controversie in materia di discriminazione (art. 28 d.lgs. n. 150/2011) ha prodotto una duplice incertezza applicativa: sui modi con cui introdurre l’azione contro un licenziamento ritenuto discriminatorio; sui rapporti tra causa di lavoro e procedimento speciale nel caso in cui datore di lavoro e lavoratore o più lavoratori abbiano agito con rito diverso contro lo stesso licenziamento.


Per il socio lavoratore di cooperativa l’incertezza applicativa deriva dalla relazione tra il rapporto di associazione ed il rapporto di lavoro che convivono, dando luogo ad una relazione obbligatoria complessa, nello stesso contratto stipulato dal socio lavoratore con la società a scopo mutualistico (art. 1, co. 3, legge 142/2001).


Norme non chiare dello stesso testo di legge (artt. 2, co. 1, e 5, co. 2, l. 142/2001, come modificate ex art. 9 l. 30/2003) rendono problematica l’identificazione del giudice competente nei casi in cui venga fatta valere l’illegittimità del licenziamento insieme o distintamente da quella del recesso della cooperativa dal rapporto associativo. Le prime pronunce della Corte di Cassazione non hanno ancora risolto le incertezze, per la pluralità delle situazioni che possono darsi casi per caso.


Le norme proposte dipanerebbero definitivamente questi dubbi: per i licenziamenti discriminatori, lasciando inalterate le disposizioni vigenti, sarebbe data facoltà alla parte (datore o prestatore di lavoro) di agire secondo l’uno o l’altro rito, fermo restando che la prima azione preclude la facoltà dell’altra parte di agire con un diverso procedimento; si favorisce in ogni caso la concentrazione delle cause davanti al giudice del lavoro, in linea col principio generale dell’art. 40 c.p.c. ed in conformità alla prime decisioni della Cassazione.    


L’estensione alle cause di lavoro della generale misura di  coazione verso il debitore condannato


Un secondo intervento normativo viene largamente auspicato dagli operatori giudiziari ed andrebbe nella stessa direzione di efficienza ed omogeneità del sistema processuale, con una modifica tecnicamente elementare. Si tratta dell’estensione alle cause di lavoro subordinato e parasubordinato della norma dell’art. 614-bis c.p.c., sull’attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare (introdotta dalla legge 69/2009)


Attualmente il primo comma recita: “con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409”. 


Con questa disposizione il nostro ordinamento si è dotato d’una misura coercitiva indiretta, rivolta a rendere più efficaci le sentenze di condanna ed a facilitare il soddisfacimento del creditore, sul modello di strumenti esistenti nei sistemi anglosassone, tedesco e francese.


I commenti sono stati pressoché unanimi nell’apprezzare l’introduzione della norma e, però, nella critica all’esclusione – unica ed incomprensibile – delle cause di cui all’art. 409 c.p.c.: nessuno ha saputo spiegare la ragione logico-giuridica o sistematica di questa eccezione per le sole cause di lavoro e non pochi ne hanno ipotizzato l’illegittimità costituzionale, rispetto all’art. 3 Cost. ed al principio di ragionevolezza.  


E’ vero che esiste uno strumento di coazione indiretta per il caso di condanna del datore di lavoro a ripristinare il rapporto col dipendente, sotto forma di retribuzioni maturate dal momento della sentenza sino a quella della reintegrazione. E’ però una fattispecie specifica ed ormai relativamente infrequente nel novero delle controversie lavorative.


Ben più efficace sarebbe una previsione generale, quale quella dell’art. 614-bis c.p.c., a tutela dei crediti sia del datore che del prestatore di lavoro contro l’inerzia del soggetto obbligato. Anche a questo proposito, alle generali esigenze di efficienza dell’ordinamento giuridico, che deve assicurare effettiva protezione alle ragioni della parte creditrice, si aggiungono quelle specifiche d’un settore in cui è sempre più impellente la necessità di evitare la proliferazione dei contenziosi e dei relativi costi economici, dissuadendo il debitore da operazioni dilatorie.


Si propone pertanto di eliminare il periodo finale del primo comma dell’art. 614-bis del codice di procedura civile.



stampa
Stampa

Cerca documenti per...

Data

ANM risponde

Le domande e le curiosità sul funzionamento e gli scopi dell'ANM

Poni la tua domanda


Iscriviti alla newsletter

Resta aggiornato su notizie ed eventi dell'Associazione Nazionale Magistrati