Abbiamo
testimoniato, ma non vorremmo più farlo. E' la risposta
che mi sono sentito di dare in questi anni a chi ci chiedeva che
cosa ha fatto la magistratura negli ultimi due decenni e cosa potrà
fare in futuro al cospetto del degrado della legalità
costituzionale programmato e talora attuato nel corso dell'ultimo
ventennio e, soprattutto, a fronte di una constatazione: nulla è
cambiato nella mentalità e cultura della legalità, nei dati
dell'evasione e della corruzione, nei costi morali, più che
giuridici, dell'illegalità.
Abbiamo
testimoniato che il codice penale è in vigore per intero,
che la legge penale non si divide tra le parti da applicare, vale a
dire quelle che fanno ricevere gli encomi ed il plauso dei c.d.
governanti e altre parti da trascurare, quelle che riguardano i
pubblici ufficiali, i manager, i gestori del potere pubblico. Non
importa se e quanto ciò abbia inciso di fatto nella costituzione
materiale del nostro paese; non importa se la corruzione sia sempre
alta, l'evasione fiscale ed i trucchi contabili all'ordine del
giorno; non importa se le leggi del Parlamento abbiano depotenziato
il contrasto a questi fenomeni. Per noi era doveroso testimoniare
che la Costituzione è al di sopra di tutti e che per lo Stato di
diritto vale quello che diceva Platone: quelli che chiamiamo
governanti sono e dovrebbero essere chiamati "servitori delle
leggi".
Abbiamo
testimoniato che l'azione penale è obbligatoria, che
il processo va celebrato anche quando talora pare una corsa ad
ostacoli, quando si cambiano le regole del gioco a processo
iniziato, quando la nostra azione coinvolge altre istituzioni che
hanno tradito, quando i segreti e la ragion di Stato vorrebbero
prevalere sui diritti umani, quando altre istituzioni pubbliche
paiono un muro di gomma. Abbiamo percorso tenacemente fino
all'ultimo centimetro la strada del processo per far prevalere i
diritti contro i privilegi di status, la civiltà giuridica contro
l'oscuramento delle verità.
Abbiamo
testimoniato che il linguaggio giuridico ha una sua
coerenza, una sua precisione, che non si può corrompere, non si
vende al miglior offerente e che si declina, ogni giorno, in azioni
concrete e non in frasi demagogiche. Quel linguaggio identifica
l'eguaglianza con la protezione dei più deboli e non con le
immunità di chi è già privilegiato; quel linguaggio sa che l'uomo
cui spettano i diritti fondamentali non è solo quello che ha avuto
la fortuna di nascere al di qua del Mediterraneo; sa che lavoro
significa prestare per alcune ore le proprie energie fisiche e
mentali e non rinunziare alle proprie idee per compiacere chi paga
il salario; quel linguaggio non ignora che la salute è un diritto
costituzionale che non scende a compromessi e pretende protezione a
qualunque costo. E' il linguaggio che si ostina a dire che la
prescrizione del reato non è assoluzione dal reato e che le leggi
sono fonti del diritto che pongono regole di comportamento
generali e non soluzioni per casi specifici o problemi
personali.
Abbiamo
testimoniato la nostra impossibilità di andare oltre la
testimonianza, l'incapacità istituzionale di essere supplenti di
alcuno, perché la magistratura dovrebbe intervenire a ricucire gli
strappi della legalità, ma quando quegli strappi sono lacerazioni
continue e vistose, quando la tela è irrimediabilmente compromessa,
quando le regole con cui di fatto accettiamo di stare insieme
contraddicono quelle scritte dalla Costituzione e dalle leggi, il
nostro rammendo serve solo a dire che siamo presenti, che ci sarà
la possibilità di ricomporre il tessuto se solo qualcuno smetterà
di lacerarlo, se chi deve controllare prima di noi per evitare
quello strappo lo farà senza porsi problemi di carriera e di
stipendi. Solo se ciò avverrà potremo finalmente non essere più
necessari protagonisti della legalità, il protagonismo di chi è
lasciato da solo con l'ago in mano, a ricucire ciò che altri hanno
irrimediabilmente strappato.
Abbiamo
testimoniato che non siamo migliori degli altri, come
singoli, solo perché indossiamo la toga. Anche tra di noi
opportunismo, convenienze, protagonismi individuali non mancano
quando si tratta del proprio status, della propria carriera, della
propria visibilità. Siamo uomini e donne come gli altri, né
migliori, né peggiori. Siamo una magistratura che può dire di aver
fatto complessivamente il suo dovere nello svolgere il compito
affidatoci per merito principale della Costituzione. E' grazie ad
essa che possiamo non temere il potente di turno che pretende di
essere al di sopra delle legge; è in forza di quelle norme che le
nostre decisioni non debbono essere popolari, ma giuste, vale a
dire adottate secondo coscienza ed al massimo della nostra scienza;
è in virtù della sapienza di quelle prescrizioni che possiamo
affermare di aver contribuito, con le forze dell'ordine, a
contrastare terrorismo, mafia e corruzione. Non è un nostro vanto
affermare di aver svolto il nostro dovere, ma riconoscenza verso
chi ha scritto le "parole costituzionali" sulla magistratura che
mai, proprio mai, dovrebbero essere messe in discussioni e
modificate.
Abbiamo
testimoniato, ma non vorremmo più farlo, perché la
legalità costituzionale non dovrebbe aver bisogno di testimoni, non
dovrebbe riscontrare la sua esistenza con il sangue dei suoi
martiri, non dovrebbe essere provata a mezzo testimoni in
rivendicazione di ci crede contro chi tradisce. Siamo stati
costretti a testimoniare quella legalità che dovrebbe essere
visibile a tutti, che tutti dovrebbero respirare, che non dovrebbe
essere un programma politico, ma un presupposto di chiunque vive la
cosa pubblica come bene comune e non un bene da saccheggiare. Quel
presupposto, se un giorno sarà realizzato anche nel nostro paese,
porrà termine alla nostra testimonianza; sarà un bel giorno e noi
saremo i primi ad esserne contenti.