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dei magistrati italiani. Tutela i valori costituzionali, l'indipendenza e l'autonomia della magistratura.

20 dicembre 2014

Riunione CDC 20 dicembre 2014, relazione introduttiva Presidente Sabelli

1. Introduzione
“Rileviamo con rammarico la diffusione tra i magistrati del costume di pubblicamente interloquire intorno a questioni attinenti l'esercizio dell'ufficio loro, sia sotto forma di interviste, sia con lettere o con articoli”.
Cari Colleghi,
con queste parole, più di un secolo fa, il ministro della Giustizia, rivolgendosi ai capi delle Corti, esprimeva la personale preoccupazione davanti a quei fermenti che di lì a poco avrebbero generato, nel giugno del 1909, la prima associazione fra i magistrati italiani. Due mesi dopo, quello stesso ministro, nell’esprimere "dubbi gravissimi” sulla possibilità che quell'iniziativa potesse produrre “frutti utili e degni", aggiungeva che "la magistratura italiana ha una costituzione rigorosamente gerarchica (...) la gerarchia ne costituisce l'essenza".
Da quei tempi è trascorso più di un secolo. La Costituzione repubblicana, nel consacrare i principi di indipendenza e di autonomia della magistratura e della pari dignità di tutti i magistrati, ha raccolto i frutti di una lenta ma irreversibile maturazione culturale che ha gettato alle ortiche, insieme con ogni nostalgia gerarchica, il mito di una magistratura raccolta nella separatezza di una turris eburnea che la protegga e insieme le interdica ogni presunta, perniciosa contaminazione.
Certamente quei tempi e quelle idee di inizio ‘900 non sono da rimpiangere. Quindi, la magistratura continuerà ad offrire il proprio contributo di esperienza e di idee, in quel confronto fecondo che raccoglie insieme società civile e istituzioni dello Stato. Anche questo è democrazia.
2. La riforma della responsabilità civile dei magistrati
Venendo ai temi all’ordine del giorno, la riunione odierna anticipa di poche settimane la convocazione ordinaria del Comitato. Il tema della responsabilità civile dei magistrati, che ha motivato la richiesta di convocazione, ci accompagna ormai fin dal tempo dell’elezione di questo Direttivo, che proprio a quel tema dedicò il suo primo documento e la sua prima audizione parlamentare, quando ancora la Giunta non era stata eletta. Quella riforma costituisce una specie di ossessione della politica, e non da tre ma da trenta anni almeno. Della questione abbiamo parlato molto e non è il caso oggi di ripercorrere tutti gli argomenti tecnico-giuridici, che abbiamo illustrato, da ultimo, nel parere prodotto lo scorso 10 dicembre alla Commissione Giustizia della Camera. Mi limito a richiamare gli aspetti più problematici della riforma già approvata dal Senato lo scorso 20 novembre.
Anzitutto l’abolizione del filtro di ammissibilità previsto dall’attuale art. 5 della legge n. 117/1988, ingiustamente accusato del presunto fallimento della legge Vassalli, tanto che non vi è progetto di riforma che non ne abbia previsto l’abrogazione. Contro ogni evidenza e contro ogni buon senso, perché non si comprende per quale ragione dovrebbero domani, senza filtro, essere accolte domande che oggi sono ritenute, col filtro, carenti di requisiti minimi di ammissibilità. Se al venir meno del filtro si fosse aggiunta quella forma surrettizia di litisconsorzio necessario del magistrato nel giudizio contro lo Stato, che era prevista originariamente dal DDL Buemi (mi riferisco al valore di giudicato che in sede di rivalsa avrebbe assunto la sentenza di condanna dello Stato), ciò avrebbe senz’altro provocato una grave lesione del principio di indipendenza e di imparzialità della giurisdizione. La soppressione di quella previsione e il mantenimento del carattere indiretto dell’azione di responsabilità rispondono a un’esigenza imposta dai principi costituzionali ma non scongiurano il rischio di azioni strumentali, con inutile impegno dei tribunali e dell’avvocatura dello Stato, per effetto del necessario instaurarsi di giudizi a cognizione piena. L’individuazione di strumenti semplificati di filtro e di immediata definizione delle azioni civili inammissibili dovrebbe anzi essere oggetto di riflessione generale e sarebbe coerente con lo sviluppo di soluzioni deflative tali da restituire sollievo a una giustizia civile in affanno.
Quanto alla nuova causa di responsabilità del “travisamento del fatto o delle prove”, la sua ambiguità caricherebbe sul giudice la tensione di una lettura costituzionalmente orientata, che sarebbe anche l’unica possibile e che dovrebbe, in sostanza, sovrapporre quella nozione ad altre già oggi previste (la negazione di fatti o prove incontrastabilmente esistenti in atti o, viceversa, l’affermazione di fatti o prove incontrastabilmente esclusi). Una lettura, cioè, che, nel definire la responsabilità del magistrato, dovrebbe proteggerla e racchiuderla nei confini dell’errore grave e manifesto, la cui evidenza non richieda alcun approfondimento o procedimento argomentativo e la cui grossolanità sia il frutto di quella inescusabile negligenza, che è lo schermo che già oggi protegge la responsabilità individuale e, secondo il disegno di riforma, dovrebbe distinguerla, in futuro, da quella dello Stato. Del resto, va rimarcato come, già in sede di audizione, le nostre considerazioni sul punto abbiano trovato concordi i rappresentanti dell’avvocatura, consapevoli dei rischi che potrebbero derivare all’erosione della libertà di interpretazione e di valutazione. Di tali rischi si mostrò consapevole anche il ministro della Giustizia, il quale, nel ricevere lo scorso 3 dicembre i rappresentanti dell’ANM, riferì che sarebbe intervenuto, nel corso dell’iter parlamentare, un chiarimento interpretativo. In effetti, nel corso della discussione svoltasi mercoledì scorso dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera, diversi deputati hanno convenuto, alla luce del nostro parere, sui limiti del travisamento e sul reale significato che esso dovrebbe assumere.
Tali considerazioni, che si aggiungono alle altre che si ricavano anche dallo studio del diritto comparato, varrebbero già da sole a dimostrare l’inopportunità di una modifica della legge Vassalli, che vada oltre quanto richiesto – ai soli fini della responsabilità dello Stato – dalle ben note sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Desidero accennare a un ultimo profilo, emerso nel corso dell’audizione, ed è il rapporto fra l’azione di responsabilità civile e quella disciplinare. L’abrogazione del filtro di ammissibilità e della delibazione preliminare sulla fondatezza della domanda di risarcimento, l’assenza di qualsiasi previsione circa un obbligo – in capo al tribunale – di trasmissione degli atti ai titolari dell’azione di responsabilità e tantomeno un suo collegamento a uno specifico momento processuale, l’indispensabile coordinamento fra le previsioni della legge n. 117 e il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari – sopravvenuto, sottolineo, alla legge Vassalli – escludono l’esistenza di qualsiasi automatismo fra la presentazione della domanda di risarcimento e l’avvio dell’indagine disciplinare. Tale indagine potrà dunque essere stimolata o dall’invio della domanda ad opera della parte privata (come del resto possibile in ogni caso, indipendentemente dall’avvio di un’azione di risarcimento) o dall’eventuale trasmissione degli atti ad opera del tribunale che ravvisasse gli estremi di un illecito disciplinare. Tale, del resto, è anche l’interpretazione emersa nel corso dell’audizione parlamentare.
3. La riforma del settore penale: prescrizione e corruzione
La questione della responsabilità civile dei magistrati si lega a quegli altri temi di riforma, che toccano direttamente l’esercizio della giurisdizione, e ciò non solo per la coincidenza temporale che li accomuna nel dibattito politico, ma soprattutto per gli effetti che tutte queste riforme produrranno sulla nostra funzione e sul nostro ruolo e, quindi, sulla qualità della giurisdizione. Ovviamente, non intendo proporvi in questa sede l’approfondimento tecnico-giuridico dei vari disegni. Non posso però rinunciare a qualche accenno almeno ai temi più attuali, cioè quelli della prescrizione e della corruzione.
Le cronache giudiziarie hanno ridestato un dibattito che pareva sopito, su proposte che suscitano nel mondo politico divisioni e polemiche, piuttosto che consensi. Ma anche questo accendersi episodico di fiamma appare effimero. La politica sembra oggi accorgersi improvvisamente di quei guasti che noi con forza abbiamo segnalato da anni. Oggi, i toni indignati vorrebbero rimediare alla debolezza delle riforme, peraltro in larga parte più annunciate che realizzate. Dunque, al Governo noi chiediamo meno stupore e scandalo e più determinazione.
Fin dal dicembre 2005 noi abbiamo denunciato l’incongruenza e i gravi effetti della riforma della prescrizione realizzata con una delle tante leggi ad personam. La proposta governativa, annunciata a fine agosto e ancora in fase di elaborazione, pare avviarsi verso l’introduzione di nuove ipotesi temporanee di sospensione nelle fasi di impugnazione, cui si aggiunge il recente annuncio di un probabile allungamento del termine ordinario. Ebbene, tali novità, se non accompagnate da soluzioni in grado di stroncare ogni tentativo di innaturale dilatazione dei tempi del processo, potrebbero paradossalmente aggravare ancor più la durata dei processi. Se la prescrizione è quello scandalo che disperde lavoro e risorse, allora il legislatore deve bloccarla se non dopo l’esercizio dell’azione penale (come pure sarebbe ragionevole) quanto meno dopo la sentenza di primo grado. Ricordo che in molti paesi (quelli, ad esempio, di tradizione anglosassone) la sentenza di primo grado è esecutiva e una prescrizione del reato non è nemmeno concepibile. Se, come è stato detto, il processo è il “rito della memoria”, allora non può ammettersi che nel processo si realizzi l’oblio dei crimini. Bloccare la prescrizione non soltanto è conforme a giustizia ma stimolerà il ricorso ai riti alternativi e scoraggerà le impugnazioni inutili.
Quanto alla corruzione, i toni di indignazione che la politica intera ha levato all’esplodere dell’ennesimo gravissimo scandalo stridono con la debolezza delle annunciate proposte governative: aumento della pena e limiti al patteggiamento. Proposte che rischierebbero di scoraggiare ogni collaborazione e rendere ancor più saldo quel patto che lega corrotti e corruttori nell’omertà di un accordo fondato sulla comune convenienza. Solo a seguito delle vibrate richieste di magistratura e società civile il Governo ha annunciato l’introduzione di sconti di pena per quanti collaborino con la giustizia. Noi speriamo che sia presentata una proposta di legge adeguata alla gravità di questo crimine, sempre più saldamente collegato ai fenomeni mafiosi. Una proposta mirata, severa ed efficace, da approvarsi in tempi molto brevi, che raccolga le indicazioni contenute nelle convenzioni internazionali e preveda meccanismi premiali per chi collabora, efficaci strumenti investigativi e un’ampia equiparazione, ai fini processuali, fra corruzione e crimine organizzato. Ci auguriamo che non ci si limiti invece a pochi, modesti ritocchi, inseriti in fretta in qualche ampia proposta di legge, destinata a lunghi percorsi parlamentari e magari a impantanarsi, una volta scemata l’indignazione del momento e archiviato il ricordo dell’ultimo scandalo.
Peraltro, nessuna riforma di settore potrà produrre effetti davvero soddisfacenti, se non sarà accompagnata da interventi efficaci sulla funzionalità del processo penale. Inoltre, per l’ennesima volta dobbiamo denunciare la carenza gravissima di personale amministrativo, da tempo giunta a livelli non più sostenibili e causa crescente di disfunzioni e di ritardi. Anche oggi, quindi, insistiamo con forza sulla necessità di provvedimenti urgenti e di una pubblicazione, in tempi brevissimi, del bando per l’assunzione di nuovo personale, come pubblicamente dichiarato dal ministro della Giustizia.
4. Punti 3, 4 e 5 dell’ordine del giorno
In merito all’organizzazione della giornata per la giustizia, secondo la delibera dell’assemblea saranno le Giunte sezionali a organizzare l’evento nelle forme che riterranno più opportune, per le finalità già indicate. Inviti alle rappresentanze del personale amministrativo e del Foro, agli studenti, alle associazioni impegnate nella diffusione della cultura dei diritti e della legalità, utilizzo di espressioni artistiche, sono solo esempi delle iniziative finora prescelte da alcune delle Giunte. Da parte nostra, sempre in esecuzione della delibera assembleare, stiamo realizzando un video, che ci auguriamo possa essere pronto per il 17 gennaio.
E’ pervenuta la richiesta della collega Teresa Reggio di far parte della commissione di studio su diritto e processo civile. Credo che la domanda debba essere accolta, così come avvenuto per le altre precedentemente pervenute.
A seguito delle dimissioni di Alessandra Galli, occorre provvedere alla sua sostituzione. Rispettiamo, naturalmente, la scelta di Alessandra ma, a nome di tutta la giunta, esprimo il nostro sincero dispiacere. Non soltanto per il rapporto di amicizia che naturalmente si è creato fra di noi ma perché Alessandra ha offerto un contributo importante – e lei sa che lo dico con convinzione. La condivisione, gli stimoli ed anche le critiche sono stati occasione di crescita e di miglioramento, in quel carattere collegiale del lavoro della giunta, di cui Alessandra dà atto nella lettera di dimissioni e anche di questo la ringrazio.
5. Conclusioni
Vorrei concludere questa introduzione con qualche riflessione che trae occasione dalle questioni di attualità, per ricondurle a una prospettiva più generale. Benché l’emendamento del Governo le abbia espunte dal testo del DDL Buemi, proposte quali il vincolo, salvo motivato dissenso, all’interpretazione delle Sezioni Unite e la sindacabilità dell’adeguatezza della motivazione dei provvedimenti cautelari rischiavano, col pretesto di assicurare l’uniformità dell’interpretazione e la qualità delle decisioni, di assegnare alla giurisdizione un ruolo diverso da quello che gli ultimi cinquant’anni di evoluzione storica e culturale le hanno attribuito. Non occorre scendere nelle profondità del pensiero di Kelsen, di Dworkin o di Ferrajoli, per comprendere che l’interpretazione, intrecciandosi con lo sviluppo delle costituzioni e delle leggi, pur nel suo progredire incerto, da due secoli almeno a questa parte, quale fattore ora di resistenza, ora di sviluppo, ha svolto e svolge un ruolo fondamentale, che si riflette sul ruolo della giurisdizione. E’ questo il fattore che ha contribuito, in misura determinante, alla realizzazione dei principi della Costituzione repubblicana, innestati su una legislazione in larga parte fascista, e ciò a partire soprattutto dalla metà degli anni ’60, quando la magistratura progressivamente si scrollò gli ultimi lasciti di quell’impostazione ottocentesca, che ricordavo al principio. Negli effetti che ne seguirono deve cercarsi, io credo, una delle cause di certe tensioni recenti, che quell’antico ministro della Giustizia aveva presagito. Oggi, come ieri, la magistratura, nell’esercitare la sua funzione di interpretazione, è chiamata a un’elevata professionalità. Oggi, forse ancor più di ieri, posto che la nuova sfida – che si presenta ai magistrati ma anche al legislatore – è costituita dalla molteplicità dei piani costituzionali e da fonti del diritto di origine giurisprudenziale, che vengono dalle sentenze delle Corti europee e che guardano a esperienze nazionali diverse, spesso d’impostazione lontana dalla nostra – penso a quelli di tradizione anglosassone. Ne offrono un esempio proprio le sentenze della Corte del Lussemburgo in tema di responsabilità civile dello Stato per violazione manifesta del diritto comunitario ma potrei aggiungere, fra Corte dell’Unione e Corte EDU, le decisioni in materia di tutela dei dati personali, di confisca urbanistica senza condanna, di bis in idem fra giudicato amministrativo e giudicato penale.
Senza andare troppo lontano, il rapido mutare del quadro internazionale, le nuove fonti pattizie e sovranazionali, l’impressionante deficit nell’etica pubblica e gli effetti che ne derivano, la grave crisi economica, le trasformazioni politiche e sociali, sono tutti fattori con i quali dobbiamo confrontarci per riconoscere e far riconoscere quali siano, oggi, il ruolo e la responsabilità della giurisdizione; quale attualità assumano i compiti di garanzia del giudice, nella consapevolezza della portata politico-costituzionale della sua funzione di garanzia; come quella funzione, nel rigore della scienza giuridica, sia il frutto di una cultura di progresso sociale, accolta dalla nostra Costituzione, di cui la libertà dell’interpretazione è strumento: una libertà che non evapora nell’arbitrio autoreferenziale e soggettivistico ma deve acquistare un senso nel confronto che si arricchisce del valore collettivo del nostro impegno. Se così è, allora il tentativo – finora fallito – di legare l’interpretazione della legge con vincoli formali mostra tutta la sua natura di artificio fuori luogo e fuori tempo: la certezza del diritto rifiuta una neutralità conservatrice ma si alimenta del senso collettivo di quell’impegno e di quel confronto.
Dunque, la libertà dell’interpretazione, la disciplina e i limiti della responsabilità civile, l’onorabilità della categoria, l’indipendenza della giurisdizione, il nostro governo autonomo, non sono nostri privilegi ma beni e strumenti di garanzia che appartengono a tutti. A noi spetta farne buon uso, alle altre istituzioni averne rispetto.



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Relazione introduttiva Sabelli al CDC 20dic14 | doc, 71 kb

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