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25 maggio 2022

Convegno "Insieme per la legalità. Memoria e impegno nel ricordo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Intervento di apertura del Presidente della Ges Caltanissetta

Troppe commemorazioni di Giovanni Falcone restano velate dall'ipocrisia, perché rimuovono le circostanze ambientali in cui maturò il terribile attentato mafioso di Capaci.
Io non posso raccontarle perché i magistrati della mia generazione nel 1992 erano solo dei bambini, ma è con quella sincerità tipica bambini che oggi possiamo dire che della eredità di Falcone rimane in molti casi – ma non tutti – una grave e scandalosa retorica che mette insieme il culto per l’eroe e il protrarsi del tradimento per le sue idee.
Idee che noi oggi non vogliamo tradire.
Giovanni Falcone, non si è mai discostato dalla rotta del garantismo e della cultura della prova; al fondo i capisaldi del c.d. metodo Falcone.
Un metodo di lavoro moderno anche oggi che mette insieme visione strategica, capacità di analisi, tenacia nel lavoro, comprensione del contesto, lettura delle cause e delle conseguenze dei singoli reati per cercare il disegno complessivo.
Eppure, i componenti del pool antimafia di Palermo che pure attuarono quel metodo furono accusati “di fare turismo giudiziario” quando si dedicavano alla preziosa attività di ricerca dei riscontri ovunque si trovassero.
La magistratura di oggi non può dimenticare, di Falcone, la “lucidità di immaginare il futuro” o per usare le parole del Presidente Mattarella, nel suo discorso del 23 maggio 2022, la “visione d’avanguardia”.
Falcone si pose per primo il problema della compatibilità delle maxi-inchieste con il processo di tipo accusatorio.
Non trenta ma quarant’anni fa - in un libro del 1982 dal titolo “Tecniche di indagine in materia di mafia” – ci avvertiva che un uso eccessivo del reato associativo, come quello previsto dal 416 bis, «può generare fenomeni di abnorme gigantismo processuale e rischia di appiattire la valutazione delle responsabilità individuali» ammonendoci di non ricorrere mai a “scorciatoie probatorie a carattere sociologico”.
Sotto altro profilo la lezione di Falcone resta di estrema attualità, alla vigilia del referendum del 12 giugno sulla separazione delle carriere
Si dirà che Giovanni Falcone “era per la separazione delle carriere!” e che questo imbarazza i magistrati.
Non è così.  
Voglio ricordare che quelle riflessioni si collocano a ridosso dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, che sopprimeva la figura del giudice istruttore rendendo impellente l’esigenza di una più netta distinzione della professionalità del pubblico ministero, ormai diventato l’unico ed esclusivo titolare delle investigazioni.
Ancora, all’epoca non era ben definita la differenza fra separazione delle funzioni (il pm che non può diventare giudice nello stesso tribunale e viceversa) e separazione delle carriere (pm e giudici reclutati con concorsi diversi; due Csm…: in sostanza, due magistrature). Oggi la separazione delle funzioni è una conquista ormai irreversibilmente consolidata (per passare da una funzione all’altra occorre superare tutta una serie di blocchi, di fatto spesso invalicabili, che negli anni Ottanta non erano neppure immaginabili).
Infine, non dobbiamo dimenticare come il nostro sistema processuale penale non è di tipo accusatorio puro (sul modello americano, del quale mancano alcune connotazioni essenziali quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio.
Ancora, attorno ad alcuni episodi della vita professionale di Giovanni Falcone si snodano questioni che ancora oggi sono al centro del dibattito interno ed esterno alla magistratura e la cui mancata risoluzione ha determinato il clima avvelenato di azzeramento della credibilità giudiziaria nel quale viviamo.
E mi riferisco in primo luogo alla nomina di Antonio Meli a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo preferito a Falcone nella successione a Caponnetto il 19 giugno 1988.
Il dibattito sviluppatosi in quella occasione non si è mai sopito e oggi resta diffici rapporto tra anzianità e attitudini nelle procedure di conferimento degli incarichi direttivi dei magistrati
L’autorizzazione del C.S.M., resa in data 27 febbraio 1991, al collocamento fuori ruolo di Giovanni Falcone, per esercitare le funzioni di Direttore generale degli Affari penali tocca la questione più generale del collocamento fuori ruolo di un magistrato ordinario per svolgere funzioni amministrative all’interno di altre istituzioni.
Oggi sappiamo quanto furono importanti le riforme a cui lavorò Falcone (istituzione delle Direzioni distrettuali e della Procura nazionale antimafia).
Eppure, ricordiamo tutti la puntata della staffetta televisiva Samarcanda Maurizio Costanzo Show del 26 settembre 1991: Falcone era stretto tra il violento attacco dell’Avv. Alfredo Galasso che gli rimproverava di andare a lavorare con il ministro della Giustizia e il j’accuse di Totò Cuffaro che gli rimproverava di avere messo sotto accusa la migliore classe politica siciliana.
La lezione di Giovanni Falcone ci dice che, vista la delicatezza delle sfide da affrontare, la magistratura “deve guardarsi dentro con coraggio” e “ripensarsi”, consapevole che nell’amministrazione della giustizia sono presenti due dimensioni quella del potere e quella del servizio: per parte nostra nei prossimi trent’anni ci impegneremo sempre per far prevalere quest’ultima
Ed è proprio sulla sottolineatura del servizio che chiudo con le parole di ieri del nostro presidente Sergio Mattarella:
“Raccogliere il testimone della “visione”di Giovanni Falcone significa affrontare con la stessa lucidità le prove dell’oggi, perché a prevalere sia – ovunque, in ogni dimensione - la causa della giustizia; al servizio della libertà e della democrazia”.
Santi Bologna


 



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