L'impostazione del disegno di
legge - secondo cui per accelerare i tempi dei processi sui
licenziamenti semplicemente si abbreviano i termini processuali
- non fa i conti con la realtà degli uffici giudiziari. La
proposta di riforma è a "costo zero", ed è assente un preventivo
studio di fattibilità o di verifica della compatibilità con le
attuali risorse a disposizione. Ogni riforma processuale dovrebbe
essere sostenuta da una indispensabile previsione dei mezzi e delle
persone necessari per renderla concretamente praticabile. Sarebbe
stato, pertanto, opportuno procedere ad una preventiva ancorché
rapida rilevazione statistica, il più possibile precisa, onde poter
valutare l'entità del numero di nuove cause in entrata ed il
relativo peso su tutto il territorio nazionale. La discussione
parlamentare andrebbe, quindi, accompagnata da una urgente e
precisa ricognizione scientifica sull'impatto della riforma, a
risorse invariate.
Andrebbe considerata l'eventualità
che il problema della lentezza dei processi in materia di lavoro
possa in realtà non trovare la sua causa nelle norme processuali.
Il rito del lavoro, a quarant'anni dalla sua entrata in
vigore, appare ancora adeguato così com'è, essendo un modello
insuperato per tecnica normativa, chiarezza e concisione.
Modificarlo con l'introduzione di "riti speciali" non convince la
maggior parte dei Colleghi che operano in questo delicato settore.
L'introduzione di un rito sommario per assicurare ai licenziamenti
una "tutela urgente" [art. 17] rischia in altri termini di
congestionare la domanda di giustizia presso i tribunali senza
produrre utili effetti per le parti del processo, poiché s'innesta
su meccanismi già noti e consolidati nelle prassi giudiziarie. Il
rito del lavoro è caratterizzato da una tempistica dettata mediante
termini processuali ordinatori sulla falsariga delle disposizioni
generali degli artt. 415 e 416 cpc, le quali non hanno però
impedito ai giudici oberati da carichi ingestibili, di
disattenderli sistematicamente: questa situazione è necessitata
soprattutto ove ciascun giudice del lavoro si trovi a gestire
migliaia di procedimenti pro capite.
Ne consegue che il vero problema
da affrontare è costituito dai carichi di lavoro, che non
consentono di rispettare i tempi già previsti dalle norme in
vigore, tempi che sono sicuramente già celeri se soltanto li si
potesse applicare. Nel testo presentato alle Camere per
l'approvazione si legge che le controversie in materia di
licenziamento "dovrebbero" essere trattate entro 30 giorni dalla
data del deposito del relativo ricorso. Più in particolare, nel
disegno di legge, i termini per la fissazione della prima udienza
in primo grado sono di 30 giorni per la prima fase sommaria e di 60
per la seconda fase di opposizione (da svolgersi sempre davanti al
giudice di primo grado). Orbene, già oggi la legge (art. 415, comma
3, c.p.c.) prevede un termine di soli 60 giorni per la fissazione
della prima udienza di merito nel rito del lavoro. Sicché, sotto
tale profilo, il termine previsto nel disegno di legge è pari, per
quanto concerne la fase sommaria, ad appena la metà del termine che
già oggi, teoricamente, ma solo teoricamente, la legge prevede per
la trattazione del rito ordinario. Ed il termine per la fissazione
dell'udienza nel giudizio di opposizione è esattamente pari a
quello oggi vigente per il giudizio di merito (60 giorni). Eppure,
in non pochi uffici giudiziari, i numeri del contenzioso sono tali
che i tempi per la fissazione della prima udienza, in difformità
della previsione astratta dell'art. 415 c.p.c., raggiungono anche i
dodici - diciotto mesi. Ed è già nella prassi degli uffici
giudiziari organizzare il calendario delle udienze in modo tale da
consentire la trattazione con priorità delle cause di
licenziamento, dove per "priorità" deve intendersi circa la metà
dei tempi ordinari. Dunque, sotto il profilo della celerità la
riforma rischia di essere priva di concreto significato, da un lato
perché l'osservanza dei termini ivi previsti sarà, nella gran parte
dei casi, impossibile (cosicché, nei fatti, i tempi saranno quelli
già in uso prima della riforma), e dall'altro perché comunque
questo rapporto tra tempi di definizione del giudizio di merito in
materia di lavoro e tempi specifici di una causa in materia di
licenziamento, sostanzialmente basato su un'abbreviazione alla metà
dei termini ordinari (che la riforma fissa in rapporto di 60 giorni
/ 30 giorni), è già in uso negli uffici giudiziari. In questo
contesto tutti i tribunali hanno cioè già individuato corsie
preferenziali, nella tempistica, per le cause di
licenziamento.
Il suddetto "rito speciale" si
sovrappone inoltre alla già esistente tutela d'urgenza, ex art. 700
c.p.c., già accordata a buona parte dei processi per licenziamento,
con la differenza che con il disegno di legge si dà prevalenza
all'oggetto (peraltro quello dichiarato dalla parte) della domanda
(impugnativa di licenziamento) piuttosto che ai requisiti d'urgenza
che nel caso concreto giustifichino l'adozione di una "corsia
preferenziale". Con l'art. 17, invece, l'esigenza dell'urgenza si
reputa insita ex lege nell'oggetto della domanda, anche quando
dovesse rivelarsi concretamente insussistente (ad es. perché la
persona licenziata è un dirigente ovvero ha percepito a fine
rapporto un trattamento economico assai cospicuo). Dunque, mentre
fino ad oggi questa corsia preferenziale è stata riservata solo ai
licenziamenti di chi, per effetto della risoluzione del rapporto,
rischia di vedere pregiudicati, nel tempo occorrente per far valere
il diritto in via ordinaria, quegli standard minimi per
un'esistenza libera e dignitosa, la riforma allarga in modo
indifferenziato la tipologia delle cause rientranti nella tutela
d'urgenza , oltretutto senza possibilità per il giudice di operare
un discrimine tra l'una e l'altra situazione. Si intravede insomma
il forte rischio che nel medio periodo questa corsia preferenziale
possa sensibilmente sovraffollarsi, con effetti dannosi sui tempi
dei giudizi.
Allarmante appare la scelta di
aprire tale tipologia di processo sommario ai giudizi nei quali sia
in discussione la «qualificazione del rapporto». Dunque,
procedimenti anche di estrema complessità, quali non solo quelli
aventi ad oggetto l'accertamento della natura subordinata di
rapporti di lavoro non formalizzati, quanto e soprattutto quelli
concernenti l'impugnativa di contratti a progetto, a termine, di
somministrazione, finiranno in questa "corsia processuale" della (a
questo punto puramente illusoria) tutela "urgente", con un
meccanismo pure irrispettoso delle esigenze di studio della causa
da parte del giudice. A ciò si aggiunga che non dalla verifica in
concreto, ad opera del giudice, di specifiche ragioni d'urgenza,
bensì dal solo "oggetto" della domanda deriverà l'assegnazione del
processo al rito sommario, e ciò potrebbe costituire un incentivo
per i difensori ad inserire un'impugnativa di licenziamento in
tutte le cause per differenze retributive proposte con riferimento
a rapporti già risolti (siano essi contratti di lavoro subordinato,
a termine o a tempo indeterminato, ovvero a progetto, di
collaborazione coordinata e continuativa, o quant'altro).
Ancora, un palese effetto
inflattivo del contenzioso deriverà dalla duplicazione dei giudizi
di licenziamento in primo grado. Il processo davanti al giudice
monocratico di primo grado, infatti, si sdoppia automaticamente in
due fasi, con un giudizio di opposizione che costringerà un secondo
(e diverso) giudice ad occuparsi della medesima vicenda sempre in
primo grado, con un prevedibile allungamento dei tempi complessivi
di definizione dei processi in materia di lavoro. Un meccanismo che
riguarderà un numero forse assai rilevante di cause, tale da
contribuire a determinare irrisolvibili problemi di incompatibilità
in uffici giudiziari caratterizzati da un basso numero di giudici
del lavoro (in non pochi uffici, oggi, è previsto in organico un
solo giudice monocratico). Sarà, cioè, problematico per i tribunali
con un solo giudice del lavoro previsto in tabella assegnare la
seconda parte del procedimento d'urgenza (un po' come per l'attuale
procedimento di opposizione ex art. 28). Reclamo in appello e
(comunque ineludibile) ricorso per cassazione completano il quadro
di una insostenibile moltiplicazione di fasi di giudizio, che
davvero non trova forse una ragione plausibile, e che, di fatto
contribuirà efficacemente alla possibile paralisi del
contenzioso.
Se non accompagnata da misure
organizzative che partano dalla verifica dell'adeguatezza degli
organici (o ad esempio dall'assegnazione di un numero determinato
di Got a trattare le cause di lavoro/previdenza meno delicate
previa specifica formazione da parte del Csm), la riforma
comporterà un ingiusto ed ulteriore rallentamento delle cause
"normali", rischi di speculazioni nel tentativo di abusare della
corsia veloce, e un consistente aumento delle controversie ai sensi
della Legge Pinto con relativo danno erariale. Il tutto avendo
considerato il rischio che i numeri del contenzioso potrebbero
rivelarsi in misura tale da rendere i nuovi termini di legge
difficilmente attuabili. Naturalmente può anche prendersi atto che
la valutazione di una possibile ricaduta negativa in termini di
aumento del carico di lavoro del magistrato non può essere un
motivo sufficiente per esprimere pregiudizialmente un parere
dubitativo sulla riforma processuale. L'aumento del carico di
lavoro potrebbe (in teoria) non essere un effetto inderogabile
della riforma ed inoltre il provvedimento sommario potrebbe
rivelare tendenziali effetti definitivi e non comportare
necessariamente un aumento delle cause. Tuttavia deve rimarcarsi
che l'attuale assetto normativo del rito del lavoro pone già il
giudice nella condizione di gestire tempi e modi del contenzioso
con sufficiente responsabilità dei risultati conseguiti se il
carico che gli è assegnato è compatibile. Quando e dove può
funzionare, il processo del lavoro funziona bene. Meglio sarebbe,
dunque, intervenire dotando il giudice di mezzi anche a costi
ridotti (strumenti informatici, personale di assistenza per la
collaborazione nella stesura di atti o negl'incombenti istruttori
più elementari), anche ad es. con opportune convenzioni, piuttosto
che imporre nuove ed improbabili vie processuali.
Deve, poi, constatarsi
l'attribuzione al giudice del lavoro della scelta se reintegrare o
no sulla base di una valutazione dell'"evidenza"
dell'illegittimità, "evidenza" che non potrà non avere, come è
facile prevedere, interpretazioni diverse. La riforma sembra
favorire , dunque, elementi di incertezza. Ed infatti se fino ad
oggi la certezza è maggiore e minori sono i margini di
discrezionalità del giudice, poiché vi sono solo due possibili
esiti (o licenziamento legittimo e rigetto del ricorso, o
licenziamento illegittimo e reintegrazione), con la riforma vi
sarebbero ipotesi intermedie per le quali occorreranno anni per
consolidare interpretazioni giurisprudenziali su concetti come la
"manifesta insussistenza del fatto" e simili. Senza volere
sindacare l'autonomia legislativa si devono perciò esprimere
perplessità circa l'introduzione di categorie giuridiche nuove in
una materia dagli orientamenti giurisprudenziali ormai consolidati,
laddove l'attribuzione di una scelta tra reintegra e indennizzo
aprirebbe scenari d'imprevedibilità per le parti (per le imprese,
in particolare) non minori di quelli oggi ravvisati per i tempi di
durata della cause ex art. 18 l. 300/70.
Il quadro delineato dalla proposta
di riforma mutua da sistemi stranieri il tentativo di
bilanciare i maggiori spazi consentiti all'impresa per recedere dal
contratto di lavoro con l'adozione di nuovi strumenti di formazione
e ricollocazione per i lavoratori licenziati. Questa operazione di
bilanciamento appare però squilibrata da due elementi oggettivi: 1)
la mancata previsione di fasi transitorie per la nuova disciplina
dei licenziamenti, che rischia di esporre i lavoratori a lunghi ed
irrisolvibili situazioni di disoccupazione in attesa che venga
pienamente attuato il meccanismo dei nuovi ammortizzatori sociali;
2) la scarsa o nulla partecipazione delle imprese a quest'ultimo
meccanismo, partecipazione che avrebbe costituito - proprio sulla
base delle esperienze straniere - un sicuro fattore dissuasivo da
licenziamenti ingiustificati, creando altresì un efficace filtro
preventivo al contenzioso in materia.